Intervista a Roberta Recchia “Tutta la vita che resta”

Roberta Recchia è laureata in Lingue e Letterature Europee. Ha lavorato per molti anni in azienda per poi intraprendere la strada dell’insegnamento, ma si è sempre dedicata alla scrittura. Oggi parleremo di “Tutta la vita che resta”, in corso di pubblicazione in 15 Paesi tra cui Regno Unito, Francia e Spagna.

Ho sentito l’hype di questo romanzo da subito. Tutti i librai, prima ancora dell’uscita, ne parlavano come un caso letterario – lo era già sulla carta, perché venduto all’estero prima ancora di uscire in Italia -. L’entusiasmo con cui lo descrivevano, mi ha lasciato davvero interdetta. “Possibile che sia così bello da far impazzire tutti?”, mi sono chiesta. Quando l’ho avuto in mano, leggendo solo degli stralci, avevo già intuito lo stile molto fluido. Si capiva che era un buon libro e che ci stava l’intervista, ma mi sono detta che lo avrei letto in profondità a pochi giorni della chiacchierata con Roberta, per avere tutto chiaro e anche per far scivolare via quest’attesa che avrebbe rischiato di condizionarmi.

Quando l’ho aperto, ho iniziato a leggero e non mi sono staccata del libro finché non l’ho finito. 400 pagine lette in un solo giorno. Mai successo. Perché in genere ho bisogno di respiro; un respiro che ho trovato all’interno della trama del libro. Una storia ricca di sentimenti, emozioni, rapporti familiari. È una vita, quella prima e quella dopo, quella che resta. Una storia di giovani, una storia di genitori, una storia tra genitori e figli. Non c’è differenza tra generazioni. Il tempo passa, ma l’essere umano e l’umanità restano uguali.

Il tema centrale del tuo libro è la vita, la vita che scorre e la vita delle persone, quella di prima, e quella che resta. Il tuo libro parla di vita. Parlarne sembra la cosa più facile del mondo, ma, forse, è la parte più complessa.

Se si lascia che la storia si racconti da sé, senza forzature, non è complesso parlarne, diventa naturale. La vita è amore, dolore, felicità, morte e rinascita. Ho lasciato che i miei personaggi si raccontassero, li ho ascoltati, ho messo a disposizione la mia narrazione. Forse è per questo che risultano veri, perché in qualche modo lo sono.

All’inizio del libro, Marisa è incinta, ma non è sposata. Nonostante tutto, decide – che il fidanzato lo voglia o meno – di tenere il bambino, anche se non è “buona creanza” per una ragazza degli anni ‘50. Marisa avrebbe voluto quello che vogliono tutte: famiglia, marito e figli, ma in quel momento ha scelto ciò che voleva lei, a prescindere dalla società. In un momento in cui si parla di femminismo e di patriarcato, sono le donne come Marisa, inconsapevolmente femministe, che hanno spinto e spingono le nostre generazioni verso l’equità?

Sicuramente la giovane Marisa è un personaggio di transizione tra un modello di donna tradizionale, ancora molto legato al ruolo della madre di famiglia, e quello di donna libera, consapevole e autoconsapevole, che si sarebbe affermato nei decenni successivi. Pare mossa solo dall’ambizione di farsi una famiglia eppure, davanti a decisioni importanti che mettono a repentaglio la serenità del suo futuro, tira fuori coraggio e determinazione. Si mostra autentica, leale, pronta ad affrontare anche da sola le conseguenze delle sue scelte. Negli anni della maturità, nonostante la vita l’abbia piegata, sarà capace di prendere in mano il corso degli eventi, affrontare le sue fragilità, risollevarsi. In Marisa c’è un ‘embrione’ della rivendicazione della parità di genere e lo si vede dal modo in cui cresce Betta, lasciandola essere sé stessa.

Parli di uno stupro e di un corpo che cede al dolore. Il tuo modo di descriverlo, anche nelle parti più violente, è particolarmente delicato, come se non volessi entrare nel dolore fisico, mentre affondi a piene mani nel dolore emotivo. Com’è stato per te, emotivamente, scrivere la scena dello stupro?

Quando scrivo mi sforzo di mantenere sempre un certo distacco emotivo proprio per essere misurata nella narrazione, scegliere le parole più giuste in maniera per quanto possibile razionale, senza lasciarmi guidare troppo dalle emozioni. Indubbiamente raccontare uno stupro è complesso. Ho cercato di farlo in modo rispettoso non solo nei confronti del lettore ma anche dei personaggi, che per me sono persone vere. Mi sono imposta di raccontare un atto brutale senza brutalità, non c’era bisogno di descrizioni minuziose perché il dramma interiore delle vittime parlava da sé.

Quando c’è una vittima di stupro o femminicidio, emergono tante domande: che tipo fosse, se fosse una libertina, come fosse vestita. Tante domande su chi era la vittima, e poche sul fatto in sé. È ancora così? Le donne sono viste come colpevoli anche quando sono vittime?

Purtroppo sì. Quello che leggiamo nei giornali, nei commenti che la gente lascia sui social, ci dice che spesso è ancora così. Nella società c’è ancora l’atteggiamento giudicante che tende a cercare elementi di colpevolezza nella vittima, finendo così con il trovare implicitamente delle giustificazioni per il carnefice.

La borghesia non ne esce bene, le persone con cuore grande le troviamo tra la gente più umile, per non dire povera. Il classismo è ancora una piaga della società? Oggi, più che mai, il valore viene dato dal denaro?

Il denaro purtroppo ha sempre contato tanto nel determinare il valore di un essere umano. La cosa grave è che accada ancora oggi, a dimostrazione che la Storia non ha insegnato nulla o almeno non abbastanza. Leo e Corallina, con la loro vita di borgata, il vissuto difficile, mostrano una generosità spontanea che si contrappone nettamente all’aridità di sentimenti che caratterizza la famiglia agiata di Miriam.

Marisa si confida con un’amica e, dopo un po’, tutto il quartiere sa dei suoi problemi. Il pettegolezzo sembra appartenere al passato, invece molto spesso si dice: “Non devi fidarti di nessuno”. Il pettegolezzo è ancora un problema di oggi, con i social ancora più amplificato?

Certo, il pettegolezzo è un problema ancora attuale, che i social hanno reso un’arma pericolosissima. Contrariamente a quello che avveniva un tempo, ora ti segue ovunque, diventa praticamente impossibile liberarsene, la rete impedisce l’oblio del gossip, che a quel punto sfugge a ogni controllo con conseguenze che possono essere anche molto gravi.

La genitorialità è descritta nel tuo libro in mille sfaccettature: chi ha dato tutto per i figli, chi li ha lasciati liberi, chi è stato distante, chi è protettivo anche senza aver generato quei figli. Non si può essere mai genitore o figlio perfetto. Qual è il messaggio che volevi dare ai genitori?

Un messaggio? Non sentirsi soli davanti ai momenti di inadeguatezza. Marisa, che sembra la madre perfetta, commette una “disattenzione” che ha conseguenze irreversibili. Credeva di sapere tutto di Betta e non era così: i figli adolescenti, per i genitori, hanno sempre zone d’ombra. Fa parte del loro processo di crescita, di distacco. Emma in principio non riesce a confrontarsi con il dramma della figlia Miriam, lo nega, sfugge perché inconsciamente sente di non essere all’altezza. Poi c’è Corallina, che invece ci dimostra che non serve aver generato un figlio per essere una madre attenta, generosa, empatica. Nel romanzo è lei la figura materna più equilibrata di tutte.

Ci sono domande molto forti: una di queste è quella su Dio. Si può ancora credere a un dio quando si vedono morire giovanissimi, quando ci sono guerre, quando gli innocenti non hanno futuro? Dov’è Dio in quel momento?

A questa domanda ciascuno di noi dà una sua risposta, in base al percorso di vita personale. Persino la fede di suor Bertilla vacilla di fronte al dramma che sconvolge la vita degli Ansaldo. Davanti al dolore e all’ingiustizia credo che ciascuno sia libero di trovare la sua fonte di conforto: la Fede, i legami che ci tengono saldi gli uni agli altri e ci danno forza, la speranza in un futuro migliore che ci dimostri che la vita vale la pena di essere vissuta nonostante tutto.

Un figlio che perde i genitori diventa “orfano”, mentre per i genitori che perdono un figlio non esiste termine. La morte prematura di un figlio uccide la famiglia intera. Manca un termine per definire questa perdita perché i genitori perdono il senso della loro vita e non possono essere più denominati in nessun modo? Oppure perché in questi casi il silenzio è il migliore dei termini?

Un genitore resta tale anche senza un figlio, forse è per questo che non esiste un termine. Un orfano evolve come individuo, fa la sua vita, forma una famiglia sua. Un genitore invece continua a portarsi dentro il figlio che non c’è più. Quella che agli occhi degli altri sembra un’assenza diventa una presenza costante, un legame più intimo e viscerale di prima, un dialogo continuo: dai figli perduti non ci si stacca. Mai più.

La diversità nel tuo libro è una qualità impagabile, volevi dire ai lettori di esaltare le proprie differenze e di non vergognarsi di esse?

Il modo più sano di approcciarsi alla diversità è normalizzarla. La vera conquista è smettere di considerarla una diversità. La chiave è accettarsi e accettare: non c’è un modello, un canone, che valga più di un altro.

“Cosa ne è di noi senza la speranza?”

Senza la speranza siamo nulla. La vita ci mette troppo spesso alla prova, ne abbiamo un bisogno disperato. Molti giovani la stanno perdendo, guardano al futuro senza aspettative, già sconfitti. La speranza è quella che ci dà la forza di reagire e agire per rendere le cose migliori, per non arrenderci.

Se tu fossi un Segnalibro, in quale libro – a parte il tuo – staresti?

Nel romanzo Peyton Place, scritto negli anni Cinquanta da Grace Metalious, una casalinga del New England. Bistrattato dalla critica, è diventato uno dei più grandi best seller di tutti i tempi, amatissimo dai lettori di tutto il mondo. Un libro ben scritto, ricco di spunti di riflessione, personaggi memorabili che sono lo specchio della società dell’epoca in una cittadina di provincia che ha ispirato persino Stephen King. Da ragazzina mi ha tenuta incollata alle pagine dall’inizio alla fine e quando l’ho chiuso mi sono detta: “Io voglio scrivere come questa signora qui.”

INTERVISTA VIDEO a ROBERTA RECCHIA

LE CITAZIONI

Era giovane, innamorata e distratta.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Poteva lasciare che la delusione e lo sconforto la tracimassero dagli occhi senza preoccuparsi degli sguardi indiscreti.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

La stupì pensare alla limitatezza del suo cuore.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Lo amava per quei sentimenti che lui neanche usava esprimere per pudore o forse perché non conosceva neppure le parole giuste.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Aveva avuto una sola cattiva abitudine: credere fermamente che la felicità fosse lì, giusto a portata di mano. Più la desiderava, più le sembrava vicina.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

La pioggia scendeva sul corpo immobile e gli occhi restavano fissi, si lasciavano inondare senza difesa.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Il silenzio della quotidianità assorbì pian piano tutto il resto.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Pianse lacrime di dolore e di vergogna.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

La morte l’aveva guardata negli occhi, aveva visto l’abisso di niente che lasciava.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Il suo bisogno di tregua, a un certo punto, sarebbe diventato più forte della paura di quello che potesse significare morire.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Le sembrava persino che quella fosse una bella notte, per morire.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Che cazzo se ne faceva, di tutti quei marmi, uno che era ancora vivo?
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Il pensiero di lei lo prosciugava.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

La ascoltò piangere le solite lacrime amare che restavano mute.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Quando Miriam lo guardava, e gli chiedeva scusa, negli occhi aveva il riflesso dell’uomo che lui voleva essere, uno di gran lunga migliore di lui.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Lei poteva solo trascinarlo a fondo con quella zavorra da cui non ci si poteva liberare in alcun modo.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Dissimulavano il malessere che adesso condividevano così, dietro la tenerezza.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Non le veniva in mente niente di più bello di Leo che la vita le avesse dato. E niente di più bello che la vita le avesse negato.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Per la gente sei quello che appari.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

I batticuori se li faceva venire così, per le questioni d’amore viveva di luce riflessa.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Il silenzio era un prezzo che lui non era disposto a pagare.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Le persone, quando le ami, non vanno lasciate sole.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Quello smarrimento, quel senso di solitudine che ti assale quando una metà del tuo cuore se ne sta andando a fondo. Quando sei giovane e la felicità l’hai appena sognata, accarezzata e te la vedi strappare via dalle braccia.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

C’era molto da imparare, sugli effetti del dolore dell’anima.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Senza sacrificio l’amore non è niente.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

C’era molto da dire, ma in fondo non serviva.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Il segreto è l’amore […], che ti salva, sostiene con te il dolore affinché non ti schiacci, ti cura.
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

Cosa ne è, di noi, senza la speranza?
(Roberta Recchia, Tutta la vita che resta)

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